“Potrebbe essere la mia fine o un nuovo inizio. Non posso saperlo. Purtroppo, mi sono dovuta affidare a mani sconosciute. Non ho scelta, non posso farci niente. E così avanzo dentro all’oscurità. O verso la luce.” (The Handmaid’s Tale – Stagione 2)
Eravamo rimasti così, anche noi come June persi nell’oscurità, senza sapere cosa sarebbe successo o dove l’avrebbero portata. La prima stagione de “Il racconto dell’ancella” era terminata come il rivoluzionario libro di Margareth Atwood, lasciandoci con un finale sospeso e un’ansia palpabile.
June avrà fatto bene a fidarsi di Nick? O un “Occhio” resta tale anche davanti all’amore?

Piccolo riassunto della precedente stagione: in un’America devastata dalle radiazioni, lo stato totalitario di Gilead ha preso il potere, creando una società maschilista e misogina che condanna le minoranze religiose e di genere e mercifica i corpi femminili al solo fine di concepire bambini sani. Un mondo grigio e anonimo le cui uniche macchie di colore sono le donne che si muovono per strada, ogni gruppo nel colore che le è stato affidato, tutte vittime, anche coloro che credono di contare qualcosa. Protagonista della storia è Difred, l’ancella affidata al comandante Fred Waterford, attraverso le cui parole entriamo in questo mondo fatto di oppressioni e speranza. La serie prosegue il viaggio all’interno di Gilead alla scoperta dell’autocoscienza di ciascuno, una ribellione ideologica per non essere più un punto di colore su una tavolozza grigia.
Nelle 13 puntante della nuova stagione creata da Bruce Miller, gli orrori a cui le donne sono sottoposte aumentano, lasciandoci scioccati davanti allo schermo, senza capire come si possano fare determinate cose, come si possa accettare una società in cui essere donna è una maledizione e essere libera è un crimine.
Avvertenza! Per questa recensione di “The Handmaid’s Tale – Stagione 2“ non posso proprio evitare gli spoiler.

Alcuni momenti, più di altri, sono stati quasi difficili da guardare. Ma, soprattutto, hanno mostrato che non sempre tutto è bianco o nero, non ci sono solo buoni o cattivi, e le sfumature di colore sono piccoli barlumi di speranza.
Scopriamo subito che Difred e le altre ancelle sono state rinchiuse e minacciate di morte per non aver voluto lapidare Janine, la loro amica, la loro compagna, un’altra delle vittime dall’abito rosso. Punite e torturate per aver mantenuto un po’ di quella umanità che la società vorrebbe che perdessero, rendendole macchine per la procreazione senza alcun sentimento. E in mezzo agli orrori ecco la notizia che arriva alle orecchie di zia Lydia: Difred è incinta.
E il clima si fa ancora più orribile; se lei non può essere toccata per non mettere in pericolo la gravidanza, deve stare a guardare e convivere con l’orrore senza poter far nulla. Inutile tentare di descrivere l’atrocità di ciò che accade. Lei, che aveva spinto le altre a ribellarsi, è costretta a nutrirsi in abiti asciutti, al caldo; mentre le sue amiche vengono mutilate o bruciate davanti a lei. L’inquadratura è ferma sul volto di June mentre si sentono le grida di dolore di Disteven il cui braccio è incatenato ad un piano cottura acceso, senza possibilità di salvezza.
È davvero la fine?
No. Nick ama davvero June e il loro bambino, e organizza un piano per portarla via da Gilead, verso la libertà.

La ricerca della libertà è il fulcro di questa seconda stagione.
Libertà di indossare vestiti diversi, di amare chi si vuole, di prendere in mano una penna, di scrivere, di leggere, di decidere se avere o meno un bambino, di stringere quel bambino tra le braccia. Le ancelle iniziano a ribellarsi. Iniziano a scambiarsi i nomi, a conoscersi, a sussurrare sotto lo sguardo degli Occhi. Tentano disperatamente di fare in mondo che nessuna si perda in quel mare di rosso, che nessuna venga più dimenticata. Perché Gilead è anche questo, una prigione di carne, un oceano infinito e “se ci resti un po’ di tempo ti divora dall’interno, ti obbligano ad uccidere dentro di te”.
Ancora una volta le protagoniste di “The Handmaid’s Tale” restano le donne, nel presente come nel passato. Scopriamo come si è arrivati allo stato totalitario di Gilead. Privazione dopo privazione, controlli mascherati da protezione, finché alle donne non è stato tolto tutto, il lavoro, il conto in banca, il cognome, il nome.
June lavorava in una redazione, Emily era un’insegnante universitaria, Serena faceva sentire la sua voce tramite libri e conferenze. E proprio Serena, che col suo vestito azzurro ha potere sulle ancelle, merita di avere spazio in questa recensione, uno dei personaggi più riusciti in assoluto, grazie alla straordinaria bravura di Yvonne Strahovski, uno di quei personaggi su cui non si può dare un giudizio netto. Il suo rapporto con June è qualcosa che esploriamo puntata dopo puntata: nemiche, moglie/ancella, moglie/amante, scrittrice/redattrice, colleghe, amiche, stupratrice/vittima, madri. Avevamo visto Serena come una carnefice priva di umanità, cieca nel suo desiderio di diventare madre, incapace di comprendere il dolore di June, che madre lo è già, di una figlia che le è stata strappata, capace anzi di usare quel dolore per minacciarla, per mantenere il suo potere.

In questa seconda stagione Serena Joy subisce un’evoluzione.
Conosciamo il suo passato, la vediamo come una donna brillante e intelligente. Una donna che fa carriera, appoggiata da un marito innamorato, che sceglie volontariamente di rinunciare alla sua libertà, al suo lavoro, al suo diritto di esprimere ciò che pensa, e a tutto ciò che ha per realizzare quell’unico desiderio che le è negato: essere madre. Ma questo desiderio di maternità è malato e oscuro come l’inchiostro.
Una parte di lei sembra cosciente di ciò che le ancelle devono subire, di ciò che devono provare nell’essere stuprate, messe incinte e nel vedersi sottratto i loro bambini, eppure non le importa, perché è convinta di poter essere una brava madre, che ciò le sia dovuto, e di avere amore sufficiente a cancellare tutto il dolore che ha causato agli altri. E forse riesce davvero a comprendere il significato dell’essere madre quando anche lei decide di ribellarsi, pur conoscendo il prezzo da pagare, e di rinunciare, forse per sempre, a quella bambina che considera sua.
Serena rinuncia a quella figlia per cui ha distrutto la sua e tante vite per permetterle di avere un futuro migliore, un futuro che, in quanto donna a Gilead, le sarebbe negato. Una Serena diversa che mette davanti a sé l’amore per quella creatura che sente sua. Ancora una volta la sua figura e quella di June si scontrano e si incontrano e mai come in questo frangente si comprendono e si mescolano.
Anche June rinuncia ad Holly, alla fuga, alla libertà per ritrovare Hannah, la bambina che le hanno strappato.

Non può andar via senza di lei, ma sa che Holly sarà al sicuro e quindi sceglie di dirle addio. È in quel momento che comprende anche il sacrificio fatto dalla sua nemesi e, nonostante tutto ciò che ha dovuto subire, fa qualcosa di incredibile, chiama la bambina Nicole, il nome che Serena aveva scelto per lei. Una scelta che può apparire assurda ma che testimonia come l’amore per un figlio, nostro o adottato (benché in questo caso non si possa parlare di adozione), rendano un genitore, due madri, identiche.
E proprio dopo aver messo da parte sé stessa per la libertà della bambina, per offrirle l’opportunità migliore, che anche Serena diventa a tutti gli effetti sua madre.
Una seconda stagione che lascia ancora una volta con il fiato sospeso e con mille domande.
Cosa avremmo fatto noi al posto d June? Cosa accadrà ora? Riuscirà a riabbracciare entrambe le sue bambine? Gli orrori che vediamo lasciano il posto alle lacrime e quasi ad un senso di abbandono e le parole di June risuonano chiare. Gilead ti distrugge dall’interno, separa ogni distinzione tra buono e cattivo, ti fa cedere al compromesso. In Canada, negli stati liberi non possono capirlo. Nel momento in cui vivi a Gilead, che tu sia Moglie, Marta, Zia o Ancella, Gilead fa parte di te. Per sempre.

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