Dopo “Grand Budapest Hotel” e “L’isola dei cani”, Wes Anderson torna dietro alla macchina da presa. Cast stellare, stile inconfondibile e omaggi al cinema francese e italiano; tutto questo è “The French Dispatch”.

Wes Anderson ci ha appena regalato un’altra delle sue meravigliose creazioni, ed io mi sento appagata. L’11 novembre appena passato è infatti uscito nelle sale italiane il nuovo film del regista texano, dal titolo “The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun”: un compendio di volti, immagini, colori e influenze del cinema del passato che Wes Anderson stesso ha descritto come un omaggio a qualcosa e a qualcuno che ammira (cioè il New Yorker e le persone che ci lavorano e lavoravano).
“Ho sempre amato il New Yorker, quella è l’ispirazione principale”, ha dichiarato in un’intervista, e nonostante neghi che il suo film sia una vera e propria “lettera d’amore nei confronti del giornalismo” possiamo comunque dire che l’amore sia un elemento centrale in questa pellicola.
Non mi riferisco alla trama, nella quale pure l’elemento amoroso e sentimentale è presente, ma nel modo in cui il regista stesso ha deciso di unire e far dialogare tra loro i vari elementi dell’opera; ritengo che concedersi alla visione di un simile lavoro sia un’esperienza d’amore a tutti gli effetti, di conforto, di abbandono alla narrazione e di fiducia; di fronte a “The French Dispatch” ci si perde, e ci si sente amati incondizionatamente, come quando da bambini ci si addormenta ascoltando una voce raccontare una storia.
Come riuscire a raccontare una simile esperienza? Come esaurire tutta questa bellezza in qualche parola? Andiamo per gradi. Cominciamo dal plot.

“The French Dispatch” è l’inserto settimanale del quotidiano Evening Sun di Liberty, Kansas, che ha sede nell’immaginaria cittadina francese Ennui–sur–Blasé ed è diretto da Arthur Howitzer Jr. (interpretato da Bill Murray). La morte improvvisa di quest’ultimo coinciderà con la chiusura della rivista, come da lui voluto nel proprio testamento. Tutta la redazione decide dunque di commemorarlo con un’ultima edizione, contando sul lavoro straordinario degli scrittori e delle scrittrici del settimanale, con cui il direttore aveva stabilito nel tempo un legame molto familiare. Inizia così una narrazione ad episodi che approfondisce e guarda da vicino il lavoro di ciascun giornalista per quest’ultima pubblicazione, spaziando tra storie di fantasia e storie ispirate a fatti reali.

Un cast stellare fa così la sua comparsa nei panni dei più stravaganti personaggi. Benicio Del Toro è un’artista-detenuto nel reparto per malati mentali della prigione, innamorato della propria guardia carceraria; Timothée Chalamet è un giovane sessantottino alle prese con i suoi nuovi muscoli che lo imbarazzano; Adrien Brody è un detenuto che decide di investire nell’arte di Moses Rosenthaler (Benicio Del Toro), conosciuto in carcere, una volta ottenuta la libertà; Owen Wilson è il “Cronista in bicicletta” della redazione, che si aggira per quartieri malfamati descrivendone i dettagli affascinanti e scomodi al pubblico borghese.
Questi sono solo alcuni degli interessanti profili che si susseguono uno dopo l’altro, in una pellicola che appare come una fiaba che ripercorre e rende omaggio da una parte alla storia del New Yorker e dall’altra alla stessa storia del cinema, riconoscendosi e autoaffermandosi come parte integrante di questa.

Di fronte a questa nuova opera di Wes Anderson è infatti impossibile non pensare alle atmosfere trasognate della Nouvelle Vague; al bianco e nero del primissimo François Truffaut; al ritmo ed alla geometria di Jacques Tati; oppure ai volti a un tempo fieri e bambini dei “Dreamers” francesi di Bernardo Bertolucci.
I riferimenti ad altre opere, le citazioni e gli elementi del passato che ispirano il regista nei suoi lavori sono molteplici e meriterebbero un approfondimento dedicato, tuttavia in questa sede ve ne suggerisco uno in particolare: Wes Anderson nel suo ultimo “The French Dispatch” ha infatti deciso di citare esplicitamente una scena del film “Mon Oncle” del regista francese Jacques Tati, di cui vi riporto un fotogramma ma la quale è facilmente reperibile su youtube.


Evidentemente, per il regista non si è trattato soltanto di un omaggio al mondo del giornalismo ma anche di un omaggio al mondo del cinema. In particolar modo a quello francese, al quale si è ispirato molto per costruire la propria poetica; Anderson vive inoltre in Francia da diversi anni ed è un ottimo conoscitore dell’estetica della nazione, della sua storia e della stessa aria che si respira tra i vicoli delle cittadine francesi, cosicché la sua ultima opera sembra essere un omaggio anche di questa stessa cultura.

Le influenze che ha dichiarato essere presenti nel suo “The French Dispatch” sono poi anche italiane.
Il regista ha infatti affermato di essersi ispirato a “L’oro di Napoli” di Vittorio De Sica per la creazione di un film a episodi, tradizione che dice essere del tutto peculiare della nostra nazione. Dal patrimonio culturale italiano il regista ha poi attinto anche scegliendo di utilizzare un brano di Ennio Morricone per la colonna sonora del film, “L’ultima volta”, composta nel 1964 per il documentario “I malamondo”.
Insomma, dietro l’arte di Wes Anderson si nasconde tutto un mondo del passato, al quale il regista rende omaggio in continuazione, attingendo, reinterpretando e rielaborando quanto di bello è già stato detto ed è già stato fatto, per renderlo attuale, nuovo, e per non farlo morire mai. Così, in quest’ultima opera ha unito stili differenti, cambiando spesso il formato dell’inquadratura, oscillando tra il bianco e nero ed i suoi adorati colori pastello e aggiungendo una nota in più con una sezione integralmente animata.

“The French Dispatch” potrebbe essere assimilata ad una matriosca, che racchiude in sé molteplici realtà, immagini e forme, e lascia battere all’unisono tanti cuori, che pur diversi tra loro condividono il proprio centro, il proprio nucleo. A questo punto non mi resta che consigliarvi di andare a vedere questa meraviglia al cinema, per godere appieno di un’esperienza confortevole di puro amore.

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Mi chiamo Gaia e mi piacciono le storie. Vivo da sempre in mezzo alla musica, sono innamorata di un’infinità di artisti, da Billie Holiday ai Rage Against The Machine, dai Beatles a Tupac, da Mina a Vasco Brondi. Studio Arti e Scienze dello Spettacolo e sono un’appassionata di cinema, con un amore particolare per Woody Allen e Wes Anderson. Amo la letteratura, perché penso possa rendere persone migliori. Spero che il mio sguardo sul mondo vi piaccia un po’!