Dopo aver viaggiato in lungo e in largo per il mondo, la Disney finalmente fa tappa in Italia, dalle parti delle Cinque Terre, consegnandoci l’ennesimo capolavoro, “Luca”. Enrico Casarosa, già curatore di storyboard disneyane come “Ratatuille” e “Up”, questa volta affronta una nuova sfida da regista, realizzando un film che di certo non tradisce le aspettative di cinefili disneyani come la sottoscritta. Tralasciando la trama, che potete benissimo trovare in giro per l’internet, voglio raccontarvi di come “Luca” non sia solo una dedica all’Italia, ma bildungsromance filmico a tutti gli effetti (Coming–Of–Age per gli addetti ai lavori, la mia deformazione professionale si rifà alla definizione critico-letteraria di Goethe).
La storia, infatti, prende spunto proprio dal vissuto di Casarosa. Il regista ci racconta della sua giovinezza a Genova e di quel suo amico d’infanzia, Alberto, di cui afferma (come riportato sul sito news Disney):
“mi ha spinto fuori dalla mia zona di comfort, e mi ha spinto giù da molti precipizi, metaforicamente e non“.

In effetti “Luca” non è solo il solito film sull’amicizia. È un monito al superamento dei confini, tanto fisici quanto mentali, soprattutto dei pregiudizi, così come uno sprone all’accettazione del sé. Ed ecco che compare un certo Bruno, una sorta di voce della coscienza, che deve fare silenzio; quella voce che tutti noi abbiamo dentro e che spesso ci inibisce e ci condiziona. Così quel “Silenzio, Bruno!” diventa il mantra ricorrente che torna ogni volta che si affacciano le difficoltà dell’età adulta, e che deve essere superato. E quindi, come mettere in scena queste ampie e complesse tematiche, mai come oggi attuali, se non con la metafora del mostro marino cacciato da secoli, non accettato per la sua stessa natura? L’obiettivo del regista possiamo leggerlo dalle sue stesse parole (sempre da news Disney):
“Speriamo che il “mostro marino” possa essere una metafora per tutti [i modi] di sentirsi diversi; come essere un adolescente o addirittura un preadolescente; in ogni momento in cui ti senti strano. Mi è sembrato un modo meraviglioso per parlarne e dover accettare prima noi stessi, in qualunque modo ci sentiamo diversi“

L’idea di scegliere proprio questo topic è nata, in Casarosa, come ha raccontato in più interviste, dall’unione di più leggende della tradizione mitica ligure di cui ha ben raccontato Human Safari in questo interessantissimo articolo per National Geographic. Qui possiamo notare il secondo obiettivo del regista, una nuova narrazione e rivalutazione della cultura italiana non comune ma particolare, sdoganando quel luogo comune dell’Italia “pizza, pasta e mandolino”.
Più lo guardavo, più ascoltavo i suoi dialoghi, più la mia mente tornava ai pensieri del giovane Arturo magistralmente sviluppati da Elsa Morante nel suo romanzo, “L’isola di Arturo” (1957, vincitore del premio Strega dello stesso anno). In effetti alcuni tratti della trama, ad esempio il percorso di crescita di Luca come di Alberto, ricordano le riflessioni di Arturo sul cambiamento del corpo e sul rapporto con il padre e Nunziatella. Certo, nel film non c’è alcun intento denunciatore come in Morante. Ma le inquadrature a zoom per le strade di Portorosso mi hanno evocato quella lunga parentesi descrittiva della Procida di Arturo.
Un tratto è comune; quella dolcezza che Morante estrae dall’Arturo bambino delle prime pagine, dal sapore amaro, Casarosa la trasforma in dolce ironia. Come lui stesso afferma, “Luca” è “una lettera d’amore alle estati della nostra giovinezza – quegli anni formativi in cui stai ritrovando te stesso“. E sono proprio la spensieratezza e l’amicizia i leitmotiv di Luca. Perché la preadolescenza è quella fase in cui i rapporti sono leggeri, legami non banali, più semplici e meno condizionati dalle costruzioni sociali e dai pregiudizi dell’età adulta. Così come le estati preadolescenziali sono condite di giochi da ragazzini che ancora non hanno il desiderio di diventare grandi.

Questa atmosfera giocosa è ben presente per tutta la prima metà del film.
Luca e Alberto sono mostri marini capaci di essere umani. Umani che sulla terra si sentono a disagio con la loro natura di mostro marino. La scoperta di possedere una “nuova pelle”, tenuta all’oscuro da una famiglia iperprotettiva (quella di Luca) ma pur sempre a ragione, visti gli incessanti pregiudizi umani sui mostri marini e la costante caccia da parte umana, pone in essere l’incontro-scontro con una nuova realtà sociale con cui l’individuo viene in contatto: gli albori dell’adolescenza; la negazione delle regole; e la ribellione alla famiglia.
E così dai giochi, da quella Vespa costruita insieme e distrutta col gioco stesso, mezzo che diventerà l’ambizione dei due ragazzini per tutto il corso del film, ciò che permetterà loro di raggiungere la tanto agognata libertà, inizia ad emergere una nuova realtà, ovvero il necessario bisogno di “venire alla luce”; tanto temuto dai genitori di Luca; che per i due ragazzini significa solo una cosa: entrare a piè pari nel mondo degli umani; con le loro abitudini; i loro modi di dire e di fare. Il mondo dei grandi, in sostanza, un mondo che, come il Paese dei Balocchi di “Pinocchio”, favola evocata in “Luca” in una scena dove compare, in una sorta di sogno ad occhi aperti, il famoso burattino, e nella scelta della colonna sonora, “Il gatto e la volpe” di Edoardo Bennato, attrae e confonde, soprattutto per due piccoli “pesci fuor d’acqua” in tutti i sensi.

Con l’arrivo a Portorosso di Luca e Alberto inizia anche la fase più dinamica della storia; più densa; con un ritmo più sostenuto rispetto alla parentesi quasi introspettiva della prima metà. Come se la seconda parte fosse la naturale risposta alle ricerca di senso della parte precedente.
E con Portorosso si entra nel cuore dell’italianità. Un’atmosfera che non procede secondo gli stereotipi con cui spesso gli italiani, anche nei cartoni, sono stati rappresentati; ma con una narrazione rispettosa e anche interessante, densa di riferimenti che vanno dalla cultura canonica a quella più pop. In un’atmosfera temporale anni ’50-’60, accompagnata dalle note di alcuni tra i più celebri brani della nostra musica pop italiana (da Gianni Morandi al Quartetto Cetra, da Mina a Rita Pavone) al breve cameo della foto di Mastroianni attaccata da Alberto sul cruscotto della Vespa, ogni dettaglio non è messo lì per caso.
L’arrivo dei due mostri ragazzini porta scompiglio a Portorosso, che diventa in un certo senso la metafora della vita stessa. Ed è qui ad entrare in gioco la piccola Giulia Marcovaldo (richiamata dalla presenza, nella città, di piazzaCalvino, un evidente omaggio del regista allo scrittore e alla nostra valevole tradizione letteraria, come nel nome del gatto di Giulia, Machiavelli), che se prima sembra prospettarsi come l’ennesima spalla femminile dei personaggi, si dimostra poi un personaggio di spicco della vicenda. Una bambina tutto pepe che veste blue jeans e non vestitini da pin up, portando con sé le istanze di un girlpower non indifferente.
Una sorta di self made woman, passatemi l’espressione, volendo lei partecipare alla competizione da sola, nonostante le sconfitte degli anni passati, e vedendo in essa una sorta di riscatto morale dall’opinione comune.

Ma come tutte le storie con una lezione da trasmettere (e in Luca ce ne sono tanti di valori da far passare ai nuovi giovani, e menomale!), «nessuno si salva da solo». E così nasce questo strano trio di “sfigati”, come loro stessi si definiscono, un trio che nasce per vincere la Portorosso Cup, che ricorda quell’amicizia tra Marco, Misia e Livio raccontata da Andrea De Carlo in “Di noi tre” (1997).
Ma quella in “Luca” è un’altra storia, è un’amicizia in cui non è ancora subentrato l’amore e la rivalità animata da esso. È un’amicizia tra bambini, ed è per quello che è bellissima e toccante; perché, come tutto il resto, profuma di infanzia che però non è più troppo infanzia. Da cosa si nota questo labile confine? Da quel pizzico di gelosia che traspare in Alberto nel momento in cui vede il suo amico Luca attratto da altro, quasi distolto dall’obiettivo iniziale. Forse in quella scena emerge per la prima volta un distacco tra Luca e Alberto, rappresentati fino a quel momento come un duo inscindibile e imprescindibile, da cui si scopre la tendenza razionale di Luca, la sua voglia di scoprire e di imparare; e al contempo la profondità di pensiero di Alberto, che racconterà a Luca il segreto che aleggia sulla sua storia personale (vi evito lo spoiler).
Quella rivalità momentanea sarà la goccia che farà traboccare il vaso? A voi scoprirlo se ancora non avete visto il film, ma se conoscete la Disney sapete che la storia non può non finire bene.

E infatti nell’epilogo, come ci insegna il teatro classico, si giunge al momento del riconoscimento. Tutti i nodi vengono al pettine e ogni elemento inserito nella storia svela la sua natura metaforica. La competizione come superamento dei limiti, ma non ad ogni costo, la gogna sociale data dalla scoperta della vera natura di Luca e Alberto che porta alla luce altre nuove verità su Portorosso, dove alla fine ciò che apparentemente sembra normale in realtà è particolare. Ma soprattutto, ed è la lezione più importante di tutta la storia, come spesso la visione libera del mondo con gli occhi dei bambini possa essere d’aiuto per noi adulti nel recupero di quel fanciullino che vive in noi; come del non fermarci al pregiudizio, al luogo comune, al sentito dire senza verificare.
È un film poetico ma mai strappalacrime. Su tutto aleggia sempre una certa ironia che anche nei momenti critici non viene mai messa da parte. Una leggerezza che sa di estate.
I più attenti, inoltre, avranno notato come in “Luca” ci siano dei parallelismi con altre derive del cinema degli ultimi anni.
Ad esempio Luca nel suo sguardo, nella semplicità delle parole, sa un po’ di “Ponyo” di Hayao Miyazaki. Il paragone è lampante. Il momento in cui Luca sta per uscire dall’acqua, circondato da una enorme cupola d’aria è un richiamo alla locandina del capolavoro dello Studio Ghibli. Non c’è da stupirsi. Il regista stesso ha dichiarato quanto Miyazaki sia stato effettivamente un suo maestro morale. Bisogna dire che la lezione sia stata appresa bene. Sempre gli spettatori più attenti avrebbero notato come Luca e Alberto somiglino in modo impressionante ad Elio e Oliver di “Chiamami col tuo nome” (2017) di Luca Guadagnino.

In effetti la comunità LGBTQ+ ha interpretato l’amicizia tra i due bambini come un inno alla rivendicazione dell’essere sé stessi, essendo anche uscito lo scorso 18 giugno nel corso del mese del Pride. La Disney, nello stesso mese, ha lanciato anche un corto proprio in occasione del Pride, “Out” (che se non avete visto vi consiglio vivamente di vedere perché è uno dei corti più belli degli ultimi anni), che racconta proprio delle difficoltà incontrate dal protagonista, Greg, nel fare coming out con i propri genitori.
Questa scelta, quindi, avrebbe ulteriormente avvalorato il parallelismo con la storia di Guadagnino, anch’essa ambientata nelle stesse zone di “Luca”.
Casarosa però, anche se estimatore di Guadagnino, più che smentire le voci, ha evidenziato come il lungometraggio in realtà abbia ben altri intenti, come abbiamo visto prima dalle sue stesse parole, e di come la storia avesse come obiettivo, quindi, il racconto di quel momento di confusione e cambiamento nel passaggio da bambino a adolescente, e che soprattutto il rapporto raccontato è un’amicizia prepuberale e non una relazione amorosa come quella tra Elio e Oliver.

A prescindere dai parallelismi e dalle somiglianze con un film piuttosto che un altro, “Luca” si rivela il film pilota di questa estate 2021, anche grazie ad un favoloso doppiaggio italiano (solo per fare alcuni nomi abbiamo Orietta Berti, Fabio Fazio e Luciana Littizzetto). Il successo di “Luca” fa pensare ad un eventuale sequel. Infatti sulla piattaforma dove il film è stato distribuito, Disney+, era stato reso disponibile un sondaggio di tre domande per coinvolgere il pubblico sul gradimento del film e su un eventuale seguito, che si prospetta essere sullo stile di un film sempre di casa Disney, “Genitori in trappola” (1998); ma staremo a vedere se il progetto andrà in porto.
Infine vi regalo un’ultima curiosità.
Uno dei personaggi topici di “Luca” è sicuramente Machiavelli, il gatto di Massimo Marcovaldo, il papà di Giulia, diventato iconico per la sua espressione imbronciata molto grumpy (ispirato, a detta di Casarosa, a Don Vito Corleone de “Il padrino”) e che somiglia ad un gatto che abita nel comune di Boccadasse (GE), Seppia, che ha anche un profilo Instagram da vero cat-influencer!
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Sono Marta, universitaria sull’orlo di una crisi di nervi e sarcastica Mafalda gentile. Tra notti insonni passate sui libri a studiare e mix di caffè e camomilla, mi piace scrivere poesie e leggere del mondo che mi circonda, che sia quello di oggi o di quello vissuto dai nostri predecessori, alla ricerca dei colori di cui è fatto e delle sue colonne sonore.