Lars von Trier dirige un Matt Dillon in forma smagliante. Un killer convinto che ogni suo omicidio sia un capolavoro, un viaggio all’interno di un’anima malata. Tutto questo è “La Casa di Jack”.

Un architetto. Un artista. Un assassino. Se questa sequenza non vi suona strana, è probabile che abbiate avuto occasione di conoscere Jack. E, soprattutto, che vi abbia risparmiati, si intende.
Il più recente lavoro del danese Lars von Trier è una preziosa opera architettonica, in senso proprio e in senso lato. Una costruzione meticolosa che si struttura attraverso 5 trame antologiche, i cui nodi vanno a convergere in un unico intreccio, a rappresentare pertanto quella casa che Jack aveva detto di voler costruire.
“Il materiale che sceglievi non era quello giusto“, gli fa eco un Virgilio dantesco – che sembra, in realtà, ricalcare il Lloyd kinghiano/kubrickiano -, contemplando l’edificio completo. Quella che si direbbe una casa a misura d’uomo. Affascinante ed enigmatico, Jack fa incetta di donne sorprendentemente ingenue, che massacra senza remore, non privo di una cura maniacale, quanto grottesca, per i dettagli di ciascun omicidio.

Lo spettatore che assiste alle sue scelleratezze di esaltato, non può che provare un senso di commozione misto rabbia, nei confronti delle vittime.
D’accordo, Jack è un bell’uomo, e la sua disponibilità potrebbe sembrare rassicurante, ma non si fa fatica a capire che in lui ci sia più di qualcosa che non va. Che si spacci per un passante gentile, un irreprensibile assicuratore, un languido amante, l’amico di una vita, la costante che dovrebbe fungere da campanello d’allarme è quello sguardo algido – Matt Dillon, signore e signori, nella più smagliante delle forme -, fermo e calcolatore, dipinto su iridi scurissime, mai coperte dal velo palpebrale, neanche per il tempo di un battito.
La serie di delitti perfetti, inanellati da questo turpe personaggio, non deve farci perdere di vista l’empietà delle sue azioni. A ricordarcela, la voce tutta particolare di quel “grillo parlante” già citato, Virgilio, scovato dietro la porta mai aperta di una stanza sconosciuta.
In un susseguirsi di quadri surrealisti, la guida morale di questo sadico peccatore, gli racconta, illustrandoglielo (inoltre), l’inferno. Una via d’uscita ci sarebbe, ma va da sé che non sia Jack l’unto del Signore che la raggiungerà.
In conclusione, “La Casa di Jack”, è un thriller brutale e scenografico racconta la sua trama con la potenza delle immagini; i dettagli sulla cura compositiva di cadaveri congelati, la trovata di ricavare un portafogli da un seno amputato, l’idea di divertirsi tirando a segno su bersagli umani in movimento (per esempio); un’escalation disturbante, raccapricciante, che raggiunge l’apice della follia più pura e va oltre, arrivando a celebrare la necrofilia come una complessa forma d’arte.

Il polso fermo che lo straordinario Matt Dillon riesce a mantenere, nell’interpretare un personaggio dalla pazzia così esasperata, farebbe dubitare della sua stessa sanità mentale; non fosse per il fatto che sappiamo di trovarci di fronte ad un attore di strabiliante bravura.
Il richiamo al contrappasso dantesco del finale, con la caduta inesorabile dell’assassino nell’abisso infernale, vuole essere la giusta punizione per i suoi delitti, ma manca l’obiettivo. Nel film, non abbiamo, infatti, modo di esplorare approfonditamente la cruda atrocità che contraddistingue le descrizioni del sommo poeta, ed è troppo vivida l’immagine che la pellicola ci lascia della barbarie di Jack, per riuscire a immaginare, per lui, una pena adeguata.

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Nata 26 anni fa e cresciuta con la consapevolezza che “All work and no play makes Jack a dull boy”. Studentessa matta e disperata di lettere moderne, datemi il mio svago fatto di lettura, cinema e serie TV e nessuno si farà del male. Se un film mi è piaciuto, la recensione è assicurata. Ossessioni? Il doppiaggio e Tom Hardy. Paladina dello Sturm und Drang. Adepta del Lato Oscuro della Forza.