Presentato alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia, “Last night in Soho” è l’ultima pellicola scritta e diretta da Edgar Wright, un regista che nel corso della sua carriera (cominciata nel 1995) ha subito una forte evoluzione. Dopo aver diretto pellicole a stampo parodistico come i tre capitoli della Trilogia del Cornetto (“L’alba dei morti dementi”; “Hot Fuzz”; e “La fine del mondo”), ha cominciato a sperimentare un tipo diverso di regia grazie a film quali “Scott Pilgrim vs the World” e “Baby Driver”. Per quanto la Trilogia del Cornetto sia una geniale rivisitazione in chiave comica dei generi horror, poliziesco e fantascientifico, gli ultimi lavori di Wright risultano essere decisamente più elaborati sia a livello di trama che visivo.
Un’evoluzione che ha portato il regista e sceneggiatore britannico a concepire “Last night in Soho”, un thriller psicologico che (almeno fino a questo momento), sancisce l’apice stilistico di Edgar Wright.

Giunta a Londra per frequentare una prestigiosa scuola di fashion design, Eloise (Thomasin McKenzie), aspirante stilista appassionata della moda e della musica della Swinging London, scoprirà di avere un misterioso legame mistico con Sandy (Anya Taylor–Joy), una cantante vissuta a Soho negli anni ‘60. Grazie a questa connessione, Eloise viaggerà indietro nel tempo, tra i segreti di una Londra dalle atmosfere tanto oscure quanto oniriche.
Grazie alla sua maestria dietro la macchina da presa, Edgard Wright riesce, con estrema raffinatezza, a mostrare le vite di Eloise e Sandy che si sovrappongono in un crescendo di ipnotica tensione. Tuttavia, nonostante la forte parte emotiva, non ha trascurato le parti tecniche dello spettacolo.
La colonna sonora rappresenta una parte importante nella pellicola di Wright. Infatti, proprio come in “Baby Driver”, le canzoni accompagnano Eloise lungo il suo viaggio mistico. Come per conferire un legame metodico ma mai monotono in “Baby Driver” il protagonista soffriva di acufene e, l’unica fonte di sollievo in grado di sopperire il fastidio causato da tale patologia, era proprio la musica che, grazie ai suoi auricolari fungeva da coprotagonista in un susseguirsi di azione e avventura. Allo stesso modo, in “Last night in Soho”, la musica riveste un ruolo di vitale importanza per Eloise. Questa rappresenta (assieme alla passione per la moda) il suo mezzo di evasione da un mondo in cui non si sente a proprio agio.

Difatti, è grazie alla musica e a quei dischi retrò anni ‘60 che la protagonista riuscirà a creare un legame con l’epoca della Swinging London.
Il tutto sorretto da una messa scena e da un montaggio in grado rendere “Last night in Soho” il più etereo e affascinante tra i film di Wright. Come in “Baby Driver”, in cui l’aspetto musicale venne curato fin nei minimi dettagli (come dimostra la sequenza iniziale in cui Ansel Elgort guida seguendo il ritmo delle canzoni), in “Last night in Soho” l’aspetto tecnico e scenografico si mescolano in maniera armoniosa con i personaggi. Essi danzano in maniera più che naturale fornendo allo spettatore uno spettacolo sublime. Le scenografie richiamano le atmosfere psichedeliche della Soho degli anni ‘60. Avvolgono Eloise e Sandy nei neon glamour di una città al massimo del suo splendore; tra un cinema che mette in mostra l’insegna di “007 – Operazione Tuono” e le caldi luci delle sale da ballo che rievocano un’epoca piena di sogni e lustrini.

Ma dietro questo mondo quasi idilliaco, si nasconde un’ombra di pura malvagità. Una landa desolata colma di soprusi, maltrattamenti e sevizie. Wright ci mostra una Soho tanto bella ed elegante quanto pericolosa e marcia. Dietro la facciata di lustrini e meraviglie si cela la parte oscura di una città in cui l’uomo nero è sempre famelico di grazia e bellezza. In cui l’ambiguità, l’oppressione e il tormento fanno parte della natura sadica dell’essere umano. Tra atmosfere hitchcockiane e i chiarori al neon che tanto ricordano “Neon Demon” di Refn, Eloise vivrà le stesse sensazioni e le stesse angherie subite da Sandy, una voce incantevole, un angelo colmo di sogni e speranze ma violato nel corpo e nell’anima in quella Soho degli anni ‘60 in cui Eloise ama tanto potersi immedesimare.
Il messaggio di Wright è molto chiaro e preciso anche se, pur affrontando un argomento tanto delicato quanto attuale, mai accusatorio.
Difatti, lo scopo di “Last night in Soho” non è quello di processare gli atti indicibili commessi dall’essere umano, ma semplicemente denunciarli attraverso la messa in scena. Come in un gioco di specchi, Wright entrerà nel labirinto della mente umana, creando una connessione empatica tra Eloise e Sandy. Il regista, a differenza di molti altri prodotti flagellati dal Politically Correct, non tenta di giocare con la morale del “giusto o sbagliato”; non saturerà la propria pellicola di finti buonismi. Anzi, conduce lo spettatore a riflettere su ciò che sta accadendo. Lo induce a porsi delle domande, senza però specificare se ci sia o no una risposta giusta o sbagliata di fronte a tali efferatezze.

“Last night in Soho” è la dimostrazione che non è tanto importante ciò che viene raccontato, quanto il modo in cui si decide di farlo. La pellicola di Wright, sebbene in un primo momento possa sembrare una storia ormai già raccontata, è invece, un’intima dichiarazione del regista su ciò che crede possa essere la verità. E la verità logora, divora. Ma tra le fiamme dell’inferno, trova quella consapevolezza che la rende libera. Libera da un mondo sporco che la vuole schiava del “più forte”, e che la dà il diritto di avere libero arbitrio sulla propria esistenza.
Tuttavia, la risoluzione finale è probabilmente in parte stereotipata, in parte invece no. Difatti segue una logica priva di una falsa regola di buona condotta.

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